È impossibile per un uomo imparare ciò che già crede di sapere
(Epitteto, I secolo)
Il peggior nemico della conoscenza non è l’ignoranza, ma l’illusione della conoscenza
(Daniel J. Boorstin[1], 1995, aforisma erroneamente attribuito a Stephen Hawking)
Perché un Paese come l’Italia, con un invidiabile sviluppo civile ed industriale, paga un così alto tributo di sangue (e di salute) nei luoghi di lavoro?
In termini relativi, l’Italia si posiziona leggermente sotto la media europea per numero di infortuni e di malattie professionali[2], sebbene sia tristemente solo seconda alla Francia per numero di infortuni letali.
Il raffronto andrebbe affinato tenendo conto della differenza esistente nelle modalità con cui ogni Paese europeo classifica e registra gli infortuni e le malattie professionali.
Comunque sia, il tema non consente di consolarci accettando il mezzo gaudio del mal comune e ci costringe ad una doverosa riflessione sulle cause di una situazione che si manifesta talvolta come fuori controllo. Questo avviene anche in occasione di eventi non direttamente connessi con la sicurezza nei luoghi di lavoro, come nel caso di disastri naturali o tecnici, o di eventi indesiderati come le pandemie, che ci costringono ad interrogarci sulla concezione e sul valore della sicurezza correntemente adottati in Italia.
Cominciamo dagli aspetti positivi. La sensibilità sul tema è molto alta.
“Non possiamo abituarci agli incidenti sul lavoro, né rassegnarci all’indifferenza verso gli infortuni”, ha sottolineato Papa Francesco[3] ricevendo in udienza l’Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro (Anmil) in occasione dell’80° anniversario della fondazione. Non si può accettare lo scarto della vita umana. «Le morti e gli infortuni sono un tragico impoverimento sociale che riguarda tutti, non solo le imprese o le famiglie coinvolte», ha aggiunto il Pontefice. «Non dobbiamo stancarci di imparare e reimparare l’arte del prenderci cura, in nome della comune umanità. La sicurezza, infatti, non è solo garantita da una buona legislazione, che va fatta rispettare, ma anche dalla capacità di vivere da fratelli e sorelle nei luoghi di lavoro», ha continuato.
Queste, invece, le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella[4]:
«L’intollerabile e dolorosa progressione delle morti e degli incidenti sul lavoro sollecita una urgente e rigorosa ricognizione sulle condizioni di sicurezza nelle quali si trovano a operare lavoratori.
Morire in fabbrica, nei campi, in qualsiasi luogo di lavoro è uno scandalo inaccettabile per un Paese civile, un fardello insopportabile per le nostre coscienze, soprattutto quando dietro agli incidenti si scopre la mancata o la non corretta applicazione di norme e procedure.
La sicurezza non è un costo, né tantomeno un lusso: ma un dovere cui corrisponde un diritto inalienabile di ogni persona.
Occorre un impegno corale di istituzioni, aziende, sindacati, lavoratori, luoghi di formazione affinché si diffonda ovunque una vera cultura della prevenzione»
La sensibilità dei leader si specchia in quella della pubblica opinione. Gli incidenti che, purtroppo, si susseguono nelle cronache, con preoccupante regolarità, suscitano grande sdegno e forte commozione.
Molfetta, Rigopiano, Polcevera, Brandizzo, è una toponomastica poco nota che le cronache portano tristemente alla ribalta, nella costernazione di tutti.
Eppure, nonostante sia così alto il livello di sensibilità, i risultati sembrano non arrivare e gli incidenti continuano a succedere.
Perché?
Per comprendere le ragioni del fenomeno è necessario ripercorrere la storia del quadro normativo in materia di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, e come questo sia stato recepito dalla società civile.
Le prime Leggi risalgono al Regno d’Italia, in particolare alla fine dell’Ottocento, con provvedimenti legislativi che riguardavano, fra gli altri, il lavoro minorile ed il lavoro nelle miniere, arrivate in ritardo con lo sviluppo industriale e, comunque, qualche decennio dopo che il Regno Unito e la Germania avevano adottato leggi analoghe, istituendo sin da subito, nel caso tedesco, istituti assicurativi per l’assistenza ad infortunati e ad invalidi sul lavoro.
Solo nel 1955 viene promulgata in Italia una Legge organica sulla prevenzione degli infortuni, ma, per assistere a una reale innovazione sistematica nella regolamentazione del settore, non solo con un compiuto sistema giuridico-normativo, ma anche con un abbozzo di sistema nazionale della prevenzione, è necessario attendere il quinquennio 1991-96, dove vengono finalmente recepite le Direttive Comunitarie del cosiddetto “nuovo approccio” – il testo principale sarà quello del D. Lgs. 626/94 – ed istituito un sistema ispettivo capillare, basato prevalentemente sulle attività delle Aziende Sanitarie Locali. Queste finalmente iniziavano ad operare sulla base di un nuovo istituto giuridico, quello della “prescrizione” che consentiva non solo di sanzionare i contravventori ma anche a costringerli ad ottemperare ai loro obblighi giuridici.
Nel 2008, con la stesura del cosiddetto Testo Unico su Salute e Sicurezza del Lavoro, si è iniziato a congegnare, almeno sulla carta, un Sistema Istituzionale della prevenzione, che lasciava appunto sperare in un approccio organico, sistematico e nazionale al tema che, però, forse, sulla carta è rimasto.
Tralasciamo per il momento alcuni ulteriori aspetti di dettaglio ed esaminiamo che impatto abbiano avuto queste Leggi (e la corrispondenti attività di controllo della loro applicazione) sulle organizzazioni economiche, sulle attività industriali, agricole e dei servizi e sulla loro sicurezza.
I testi delle Leggi ponevano nuovi requisiti tecnici ad una platea che, sino agli anni ’90 del secolo scorso, spesso non aveva dimestichezza con concetti come rischio, pericolo, sicurezza e ancor meno con le metodologie necessarie per una corretta progettazione e gestione della sicurezza.
Di fatto, al progresso delle Leggi, non corrispondeva altrettanto progresso delle competenze negli addetti ai lavori che, anche per l’effetto dell’attività di vigilanza delle ASL, andavano via via aumentando.
Piani di studi accademici specificamente concepiti appaiono in Italia solo negli anni ‘90[5], e sono riservati a pochi discenti. Solo nel 2004 vengono istituiti i corsi universitari di Tecnica della Prevenzione e Ingegneria della Sicurezza, che formano nuove professionalità in numero non ancora sufficiente e, probabilmente, con una preparazione non ancora abbastanza robusta.
La restante, stragrande, maggioranza degli operatori della sicurezza acquisisce competenze solo attraverso percorsi di apprendimento informale o non formale.
Una procedura di infrazione dell’Unione Europea finalmente costringe nel 2003 l’Italia ad adottare, per i Responsabili ed Addetti ai servizi di prevenzione e protezione aziendali, un percorso di apprendimento formale, con un Decreto che finalmente pone dei requisiti formativi minimi.
Questi sono di fatto attuati con un accordo Stato Regioni che interviene solo nel 2006 e che pone alla base della qualificazione di tali figure professionali un percorso formativo di poche decine di ore su contenuti certamente non esaustivi per acquisire le necessarie competenze.
In questo frangente, alcuni soggetti o entità pubbliche o private, di recentissima costituzione e non sempre con un background accademico adeguato, provano a fornire metodi per la gestione della sicurezza, basati spesso su discutibili scelte metodologiche per redigere il cosiddetto “documento di valutazione dei rischi”, documento posto a fondamento dell’organizzazione della sicurezza.
Ad esempio, è stato particolarmente in auge negli anni ‘90 un software, basato parzialmente su uno standard militare del Dipartimento della Difesa statunitense, inefficacemente applicabile ai luoghi di lavoro italiani.
Poco o punta era l’attendibilità scientifica di questi metodi ma, cosa ancor più grave, era pressoché nullo il retroterra culturale e scientifico per manipolare un tema, come quello della Scienza della Sicurezza, che presuppone il possesso di precise competenze, da parte di quelle figure responsabili della sicurezza dei lavoratori, come il datore di lavoro ed il suo responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ma anche come gli ispettori delle ASL o degli altri organi di vigilanza.
E, purtroppo, non è sempre stato facilmente riscontrabile dei percorsi formativi – talvolta anche nelle Università – l’apprendimento di queste materie.
Fra queste competenze, ad esempio, vi è la Logica dell’Incerto. Chi si occupa di sicurezza ha a che fare con eventi futuri ed incerti. Non avere competenze, ad esempio, di Calcolo delle Probabilità e Statistica espone, quanto meno, ad una imprecisa valutazione del rischio.
Valga lo stesso discorso per altre discipline indispensabili per la sicurezza, come la psicologia comportamentale, i cui aspetti applicativi influenzano la materia fondamentale dello “Human and Organizational Factor”, oppure come l’Ergonomia, nelle sue branche che comprendono l’ergonomia fisica, quella cognitiva e quella organizzativa. È fondamentale la conoscenza degli Standard tecnici – relegati in un angolino del percorso formativo di chi si dovrebbe occupare di sicurezza – od anche dei metodi del “Crisis Management” (che ho visto disattendere nei suoi principi fondamentali durante la pandemia Covid-19).
Ecco, dunque, che hanno preso piede pratiche scorrette – e quindi completamente inefficaci, quando non dannose – per la gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Il risultato è che la vita dei lavoratori viene ancora troppo spesso giocata d’azzardo.
Ci sono alcuni aspetti che dimostrano quanto sia vera questa situazione.
Il primo è la consuetudine, anche nei documenti ufficiali, di denominare “documento di valutazione dei rischi” il documento previsto dalla Legge come progetto della sicurezza. Il Testo Unico chiede ben altro oltre la valutazione dei rischi. Spesso i documenti sono incompleti.
Invece, nel tempo è invalso l’uso di concentrare l’attenzione sul processo valutativo, che nella prassi italiana corrente è spesso basata su metodi ascientifici. Non viene dedicata abbastanza attenzione alla predisposizione di efficaci pratiche e di misure di sicurezza, che è fondamentale adottare. Si sprecano energie sulla valutazione soggettiva del rischio, dove “soggettiva” spesso è da intendersi come “arbitraria”.
Questa ossessione su una malintesa “valutazione del rischio” ha luogo mentre, paradossalmente, la definizione di rischio – contenuta nella Legge – è concettualmente errata, poiché malamente tradotta dal testo originale inglese delle Direttive e Linee Guida Europee.
Nel testo italiano il rischio è la “probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione”.
In quello originario è “the likelihood that the potential for harm will be attained under the conditions of use and/or exposure, and the possible extent of the harm” la cui traduzione corretta è “la verosimiglianza (probabilità) che il potenziale di danno sia raggiunto nelle condizioni di uso e/o di esposizione, e la possibile estensione del danno (impatto)”. In sintesi: probabilità ed impatto.
Per i non addetti ai lavori le due definizioni potranno apparire uguali, ma non lo sono. La seconda è corretta ed in linea con la Scienza della Sicurezza, la prima è una cosa senza senso che tuttavia viene ripetuta in quasi tutti, se non in tutti, i “documenti di valutazione del rischio” italiani, senza che nessuno se ne accorga.
Sembra un dettaglio, ma questo fatto è una delle cartine al tornasole che dimostrano una notevolissima impreparazione di chi dovrebbe progettare la sicurezza (ma anche di chi dovrebbe controllare che questa progettazione sia fatta bene).
Del resto, se dai frutti si riconosce l’albero, l’attuale situazione infortunistica non può che essere frutto di una carenza di competenze.
Eppure, vi sono attività contraddistinte da un elevato profilo di rischio che vengono svolte in sicurezza sotto gli occhi di tutti.
Una di queste è il trasporto aereo di linea. Nonostante la molto antipatica tendenza di un aereo di venire giù come un sasso in caso di avaria a bordo, peraltro difficilmente mitigata dalle misure di protezione presenti in cabina, come cinture di sicurezza, maschere di ossigeno e salvagenti, riteniamo che il mezzo aereo sia quello più sicuro di tutti.
Non è un caso che il settore aeronautico fornisca alla Scienza della Sicurezza principi e metodi che potrebbero essere vantaggiosamente utilizzati in altri ambiti (e, di fatto, lo sono da parte di chi, conoscendoli, li sta già applicando, ma ciò avviene raramente).
Altri settori, come la petrolchimica ed il nucleare, sono ricchi di spunti metodologici che però non sono presenti nell’attuale percorso formativo degli addetti alla sicurezza, fra i quali, rammentiamolo, non vi sono soltanto i responsabili della sicurezza, ma anche coloro i quali debbono controllare il loro operato.
È triste constatare, al contrario, che non solo la maggioranza di questi soggetti sia impreparata ma che essa presuma, sulla base di una inadeguata formazione ricevuta, di essere all’altezza del gravoso dovere di tutela che ha nei confronti dei lavoratori.
Qualsiasi riforma del sistema[6] sarà destinata a restare sulla carta, e a non fornire effetti, se non si revisiona il sistema di qualificazione delle professioni tecniche implicate nella gestione della sicurezza.
Il percorso non è facile. È arduo, ma il primo passo dobbiamo pur farlo.
Gianpaolo Natale (Centro Studi Livatino)
[1] Daniel J. Boorstin è stato uno storico della scienza, docente e saggista statunitense. In realtà la citazione originale è: “La storia della scienza occidentale conferma l’aforisma secondo il quale la grande minaccia al progresso non è l’ignoranza ma l’illusione della conoscenza”.
[2] Fonte: INAIL, Eurostat
[3]https://www.avvenire.it/attualita/pagine/papa-su-morti-lavoro
[4] https://www.quirinale.it/elementi/98470
[5] Nel 1991 viene istituita presso l’Università di Pisa la “Scuola di Specializzazione in Protezione Industriale”
[6] Accenno appena ad un altra criticità od occasione mancata, fra le altre presenti nella gestione della sicurezza. Esiste sulla carta un Sistema Istituzionale della prevenzione previsto dal capo II del Titolo I del Testo Unico che, nonostante il potenziale che sarebbe in grado di esprimere, non apporta ancora il valore aggiunto al sistema nazionale della prevenzione; solo quest’aspetto potrebbe essere materia per un altro articolo.