La Corte Penale Internazionale (CPI) ha recentemente emesso un mandato d’arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. Le accuse comprendono genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità, un atto che, a prima vista, potrebbe sembrare un trionfo della giustizia globale. Tuttavia, analizzando i dettagli del caso, emergono numerose incongruenze e criticità che mettono seriamente in discussione la legittimità e l’imparzialità della decisione. Questo mandato appare più come un’operazione politica che una vera applicazione della giustizia.
L’ambiguità delle accuse: prove inesistenti e segretate
Le accuse mosse contro Netanyahu e Gallant, pur gravi, risultano estremamente generiche e prive di dettagli concreti. Si parla di “carestie”, “mancanza d’acqua” e “decessi civili”, ma senza indicare né i contesti né i fatti specifici.
Peggio ancora, le prove su cui si basa la CPI sono state secretate, con la giustificazione che la loro divulgazione potrebbe mettere in pericolo i testimoni. Questo metodo mina alla base il diritto alla difesa. Come può un imputato dimostrare la propria innocenza se non gli è permesso sapere di cosa viene accusato e su quali basi?
In Italia, per fare un esempio, il segreto istruttorio viene meno nel momento in cui si avanza una richiesta di custodia cautelare, proprio per garantire agli indagati la possibilità di contestare le accuse. Qui, invece, ci troviamo di fronte a una violazione gravissima di uno dei pilastri fondamentali della giustizia: la trasparenza.
Il giudice libanese: un conflitto d’interessi palese
Uno degli aspetti più incredibili di questa vicenda è la figura del presidente della corte che segue il caso, un giudice libanese. Considerando i trascorsi storici e politici tra Israele e Libano, è difficile immaginare una scelta più inopportuna. Il Libano è stato teatro di conflitti armati con Israele per decenni, e la presenza di un giudice proveniente da una nazione che ha subito le operazioni militari israeliane solleva enormi dubbi sull’imparzialità del processo.
Se la CPI avesse voluto salvaguardare la sua credibilità, avrebbe dovuto affidare il caso a un giudice proveniente da una nazione neutrale, magari giapponese o svizzero. La scelta del giudice libanese dimostra una superficialità, se non una volontà deliberata di politicizzare il procedimento.
Doppio standard nell’applicazione della giustizia
La CPI, pur avendo emesso un mandato contro Netanyahu, ha adottato un atteggiamento molto diverso nei confronti di altri leader, come Vladimir Putin, accusato di crimini altrettanto gravi, se non peggiori. Per Putin, le accuse sono dettagliate e note, con nomi, date e circostanze precise, mentre nel caso di Netanyahu siamo nel vago assoluto.
Inoltre, le accuse a Netanyahu si basano su operazioni militari condotte in contesti di guerra, dove Israele si difende da attacchi missilistici e minacce costanti. Come si può equiparare un capo di stato che protegge il proprio territorio a un dittatore che reprime brutalmente ogni dissenso? Questo doppio standard è una macchia sulla credibilità della CPI, che dimostra di usare il suo potere in modo arbitrario e politicizzato.
Politica travestita da giustizia
L’emissione del mandato sembra avere meno a che fare con i principi di giustizia e più con pressioni politiche di paesi ostili a Israele. Non è un caso che l’indagine sia stata richiesta da nazioni africane e sudamericane con scarsa affinità verso la democrazia e spesso apertamente critiche verso Israele. Tra i promotori dell’indagine figurano anche stati con legami con Hamas, organizzazione considerata terroristica da molte nazioni occidentali.
L’intervento della CPI rischia di legittimare un meccanismo perverso: chiunque abbia motivi politici per attaccare uno stato o il suo leader può sfruttare il tribunale per raggiungere i propri scopi.
Gli effetti devastanti sull’opinione pubblica
Questa vicenda rischia di inviare un messaggio pericoloso all’opinione pubblica: il fine giustifica i mezzi. La CPI, che dovrebbe essere un baluardo di imparzialità e giustizia, si trasforma in uno strumento di propaganda contro stati democratici come Israele, alimentando la narrativa di chi vorrebbe equiparare la legittima difesa a crimini di guerra.
Come sottolineato dal presidente Biden, equiparare l’aggressore e l’aggredito spalanca le porte all’anarchia internazionale, rendendo impossibile per qualunque stato difendersi senza rischiare accuse infamanti.
Un colpo alla credibilità della giustizia internazionale
Il mandato d’arresto contro Netanyahu non è solo una vicenda giudiziaria mal gestita, ma un danno incalcolabile alla fiducia nella giustizia internazionale. Le ombre su questo caso – dalla segretezza delle prove alla palese politicizzazione del processo – dimostrano che la CPI sta tradendo i suoi stessi principi.
Questa non è giustizia, ma un gioco politico mascherato da legalità. Se la comunità internazionale vuole mantenere viva la speranza di un sistema di giustizia globale credibile, deve intervenire per riformare profondamente la CPI e garantire che casi come questo non si ripetano. Altrimenti, sarà difficile convincere chiunque che il tribunale sia altro che una farsa.
Andrea Franchi