“Salvato dall’università italiana: elogio della fuga e condanna di un disastro culturale”

Di Andrea Franchi

Ci sono giorni in cui mi sveglio e ringrazio Dio, il caso o il coraggio dei miei genitori per avermi dato la possibilità di studiare all’estero. È un pensiero che porto dentro con lucidità crescente, ogni volta che mi confronto con chi, invece, è rimasto intrappolato nel pantano dell’università italiana. E non parlo per sentito dire. Parlo da chi ha conosciuto due mondi, due modelli educativi, due idee opposte di cosa significhi “formare una mente”.

Studiare all’estero – in un contesto serio, selettivo, meritocratico – è stata la mia salvezza. È lì che ho imparato a scrivere, discutere, pensare. È lì che mi è stato chiesto di dimostrare qualcosa, non di ripetere a memoria le opinioni del docente. È lì che ho capito che il sapere non è un diritto regalato, ma una conquista da meritare. E ogni giorno che passa, vedo con crescente disprezzo e amarezza il confronto con il modello italiano, che assomiglia sempre più a una fabbrica di anime piegate, diplomifici travestiti da templi del sapere, gestiti da una burocrazia autoreferenziale, feudale, marcia.

La responsabilità ha un nome e un cognome: la sinistra accademica. Da decenni, ha egemonizzato le università italiane, soprattutto quelle umanistiche, colonizzandole con il culto dell’eguaglianza a prescindere, il disprezzo della competizione, il rifiuto dell’eccellenza. In nome di un “diritto allo studio” malinteso, ha abbattuto ogni barriera selettiva, trasformando l’accesso libero in un accesso garantito, e l’uscita in una laurea senza valore. Hanno predicato l’inclusione e partorito la mediocrità.

I baroni rossi – figli e nipoti del Sessantotto – hanno preso il potere promettendo una rivoluzione. Hanno ottenuto invece un’oligarchia di parrucconi inamovibili, incapaci di produrre ricerca di qualità, ostili al confronto internazionale, abituati a cooptare anziché selezionare. E così, ogni anno, nuove generazioni di brillanti giovani vengono costrette a scegliere: o si piegano al sistema, o emigrano. E chi resta, spesso si spegne.

La mia generazione ha imparato una lezione brutale: in Italia, se hai talento e voglia di competere, sei un problema. Se vuoi ragionare fuori dal coro, sei un corpo estraneo. Se osi proporre una visione liberale, sei schedato come nemico ideologico. La logica, in alcune facoltà, è stata persino abolita come materia obbligatoria. Incredibile, eppure vero. Perché una mente logica è una mente che non si conforma, e l’università italiana non vuole pensatori, vuole replicanti.

Chi ha permesso tutto questo dovrebbe rispondere davanti alla nazione. Hanno tolto ai giovani la spinta a lottare per il merito, hanno sostituito la dignità del sapere con la facilità della promozione, hanno illuso milioni di famiglie che bastasse una laurea per assicurare un futuro. Il risultato?

Giovani laureati impreparati, sottopagati, spesso sfruttati in tirocini vuoti. Laureati che nessuna azienda assume sulla fiducia, perché il titolo non certifica più nulla. È il grande inganno dell’egualitarismo ideologico.Serve una riforma, ma non una riforma burocratica. Serve una rivoluzione culturale. Serve il ritorno del rigore, della selezione, del merito. Serve che l’università torni a essere una sfida e non un parcheggio. Serve espellere non solo i baroni “neri” e “bianchi” ma anche – e soprattutto – quelli “rossi”. Quelli che hanno usato l’università per plasmare generazioni di cittadini passivi, ideologizzati, incapaci di autonomia.

Io non ho più tempo da perdere con chi ha rovinato il nostro sistema formativo. Ho scelto la via della libertà, e come me tanti altri. Ma chi resta ha il dovere di combattere. Perché l’università italiana si può ancora salvare. A patto che si riconosca che il suo declino non è stato un errore casuale, ma il frutto di un progetto politico preciso. E come ogni progetto ideologico fallito, va rovesciato. Dalle fondamenta.

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