Giovanni Paolo II, attentato 40 anni fa. La pista mafiosa ma ancora tante domande

Accadde il 13 maggio 1981: erano da poco passate le 17.17; ripercorre la vicenda drammatica Secolo d’Italia. Il turco Mehmet Ali Agca aveva attentato alla vita di Giovanni Paolo II in piazza San Pietro. Un gesto sul quale restano ancora tanti misteri.

Dietro l’attentato a Giovanni Paolo II si nascondono complicità mai svelate. Il 13 maggio di quarant’anni fa, alle 17.19, papa Giovanni Paolo II venne colpito da due colpi di pistola sparati da Ali Agca mentre, a bordo della sua auto scoperta, la Fiat Campagnola oggi esposta ai Musei Vaticani, Wojtyla stava salutando i fedeli accorsi per l’udienza generale.

Il Pontefice, trasferito d’urgenza al Policlinico Gemelli di Roma, fu sottoposto ad un delicato intervento riuscendo a sopravvivere. Subirà un nuovo intervento al Gemelli il 5 agosto successivo. Agca venne subito arrestato e condannato all’ergastolo. Sul fronte delle indagini si arrivò alla conclusione che Agca, fosse collegato ai ‘lupi grigi’, movimento estremista nazionalista turco, cui fu attribuita inizialmente la paternità dell’evento.

Il 13 maggio è la festa della Madonna di Fatima. Giovanni Paolo II si convince che a salvarlo sia stato un miracolo. La prima pallottola, infatti, compie un’inspiegabile traiettoria a zig zag nell’addome. Quanto basta per non ucciderlo.

Chi voleva il Papa morto? Ali Agca ha agito da solo? Quale mano l’ha armato? C’è una ‘pista bulgara’ attivata dal Kgb di Mosca? C’entra la Cia? Il mistero si cela in Vaticano? C’entra qualcosa la scomparsa, il 22 giugno del 1983, di Emanuela Orlandi, la figlia di un funzionario vaticano per la cui liberazione i sedicenti rapitori chiedono proprio la libertà di Agca (che su quella sparizione fornirà tante versioni diverse)? Domande e sospetti a cui ancora in tanti, a 40 anni di distanza, tentano di dare una risposta, ma che giudiziariamente non hanno mai trovato riscontri.

A progettare ed eseguire l’attentato a Giovanni Paolo II è stato solo Ali Agca, terrorista dei ‘Lupi Grigi’. Questo e solo questo, al di là delle ipotesi messe in campo, della tesi della ‘terza pallottola’, delle piste giudiziarie seguite e dai vari processi, dicono le sentenze.

La prima è del 22 luglio 1981, quando Ali Agca, dopo tre giorni di processo per direttissima, venne condannato all’ergastolo (rinuncerà a presentare appello). Già in quell’occasione, i giudici parlarono di attentato preparato non da un “maniaco” ma da un’organizzazione eversiva rimasta nell’ombra. La difesa del terrorista, al contrario, sostenne che Ali Agca agì da solo.

Dopo la sentenza, però, la procura di Roma proseguì le indagini per scoprire se davvero dietro Agca non ci fosse nessuno, nessuna organizzazione, nessun mandante, e a questo scopo nel novembre del 1981 un supplemento d’istruttoria per la seconda inchiesta venne affidato al giudice Ilario Martella. È il 16 agosto del 1982 quando sul ‘Reader’s digest’ la scrittrice americana Claire Sterling sostenne che Agca agì su mandato dei servizi segreti bulgari e sovietici. È qui che emerse per la prima volta la cosiddetta “pista bulgara”, con inevitabili propaggini sovietiche (pista avallata anche dalla Commissione d’Inchiesta Mitrokhin).

Il processo sul presunto complotto, però, si conclude il 29 marzo del 1986 con l’assoluzione per insufficienza di prove di Antonov, Vassilev, Ayvazov, Celebi e Celik, mentre i giudici condannarono a 3 anni e 2 mesi Omar Bagci e a 1 anno lo stesso Agca per detenzione di arma (sentenza di fatto confermata in appello il 19 dicembre del 1987). Anche la terza inchiesta, condotta dai giudici Rosario Priore e Antonio Marini, finì nel 1998 con l’archiviazione.

Il giudice Priore valutò anche la ‘pista mafiosa’ sulla base delle dichiarazioni del pentito Vincenzo Calcara, secondo il quale Ali Agca venne ingaggiato da Cosa nostra: “Si erano riuniti elementi della Cupola palermitana (tra cui Riina, ndr) – disse Calcara – ed elementi dell’ordine di Santo Sepolcro. Anche monsignor Marcinkus faceva parte di quest’ordine”. Per Calcara il Papa doveva essere ucciso perché “voleva fare dei cambiamenti che avrebbe danneggiato non solo ambienti del Vaticano, ma anche interessi di Cosa Nostra. Ambienti del Vaticano ovviamente corrotti e collusi con Cosa Nostra”. Dichiarazioni su cui i magistrati palermitani, scettici, non trovarono riscontri. Per Priore, però, il pentito era credibile e in grado di rafforzare la “pista investigativa” interna al Vaticano.

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