Di Andrea Franchi
La recente condanna di Marine Le Pen, con l’immediata applicazione della pena accessoria che la esclude dalla competizione presidenziale del 2027, segna un punto di non ritorno nel rapporto sempre più torbido tra giustizia e politica in Europa. Il fatto che la misura più devastante per la carriera di un leader politico – l’ineleggibilità – venga attivata prima di una sentenza definitiva, getta un’ombra inquietante sull’intero impianto dello Stato di diritto. E non si tratta di difendere Le Pen: si tratta di difendere la democrazia dalla degenerazione più pericolosa, quella travestita da legalità.
La magistratura francese, con questo passo, ha fatto ciò che molti definirebbero un atto di giustizia. In realtà, ha inferto un colpo al cuore dell’equilibrio istituzionale, trasformando una misura cautelare in un atto di guerra politica. Invece di lasciar che sia il popolo a giudicare con il voto, si è scelto di eliminare dalla corsa la figura più rappresentativa della principale forza d’opposizione, prima ancora che un giudice terzo possa stabilire se vi sia colpa o innocenza in via definitiva.
Un’operazione che, in qualsiasi democrazia matura, non dovrebbe nemmeno essere ipotizzabile. L’effetto istituzionale è devastante. Se Le Pen dovesse essere poi assolta in appello o in Cassazione, non solo si dovrebbe prendere atto che è stata esclusa ingiustamente da una competizione elettorale regolare, ma si aprirebbe un precedente squassante per la legittimità delle elezioni stesse. L’idea che un potere – quello giudiziario – possa alterare l’esito delle urne per via anticipata, rappresenta un cortocircuito istituzionale degno di regimi che l’Europa pretende di stigmatizzare all’estero ma che, evidentemente, in casa propria tollera quando fa comodo.
La questione non è Le Pen. È Bardella, è chiunque venga dopo. È l’idea che si possa vincere non nel campo del confronto politico, ma a colpi di sentenze. Ed è qui che si rivela l’errore strategico – oltre che giuridico – di questa operazione. Perché il Fronte Nazionale, ora, non ha più bisogno di convincere con le idee: può sventolare la bandiera del martirio, dell’ingiustizia subita, della manipolazione sistemica. In una Francia già polarizzata, il ruolo della vittima è il carburante più potente per incendiare il consenso.
Ancora più grave è la constatazione che questo metodo non è un incidente isolato. Viene da lontano. È il prodotto di una cultura giudiziaria che, anziché esercitare la propria funzione con sobrietà e discrezione, ha da decenni imboccato la via dell’attivismo, ma sempre in una sola direzione. La sinistra – quella che non riesce a vincere nelle urne – ha trovato nelle aule dei tribunali un alleato prezioso. Non per fare giustizia, ma per regolare conti che il voto non le consente più di chiudere.
L’Italia ne sa qualcosa. Mani Pulite non fu solo un’inchiesta: fu la decapitazione politica di un’intera classe dirigente. Non per sostituirla con una migliore, ma con una più malleabile. Anche lì, la giustizia si fece strumento di potere. Il risultato? Un paese consegnato all’instabilità cronica, alla paralisi delle riforme, alla spettacolarizzazione del diritto.
Oggi, in Francia, si sta replicando lo stesso schema con una precisione chirurgica. E chi applaude oggi perché la vittima è scomoda, domani piangerà quando il meccanismo si rivolterà contro.
Perché ciò che si crea, si può anche subire. Quando la giustizia diventa arma politica, nessuno è al sicuro. Chi siede nei tribunali dovrebbe sempre ricordare che il proprio compito è applicare la legge, non condizionare la storia. E quando lo dimentica, non rende giustizia: la tradisce.