Iran, l’illusione del colpo risolutivo e il rischio di un Medio Oriente in fiamme

Di Andrea Franchi
Mentre le immagini dei bombardamenti americani sui siti nucleari iraniani fanno il giro del mondo, l’impressione dominante, tra analisti e osservatori realisti, è quella di una colossale messinscena. Un’operazione muscolare, spettacolare, forse tecnicamente riuscita, ma politicamente sterile. Perché se è vero che gli USA hanno colpito, con la loro consueta precisione chirurgica, ciò che doveva essere colpito, è altrettanto vero che Teheran sapeva tutto da settimane.

Il regime iraniano non è sprovveduto. Ha avuto tempo e mezzi per occultare o spostare materiali sensibili, centrifughe, testate in assemblaggio o componenti chiave del proprio programma. L’attacco americano assomiglia, più che a un’azione preventiva risolutiva, a un tentativo di chiudere la stalla dopo che i cavalli sono già scappati. E lo ha fatto – ancora una volta – senza uno sbocco strategico definito.

Pensare di poter ottenere un regime change in Iran solo con i bombardamenti è un’illusione già costata caro in passato, dall’Iraq alla Libia. Un cambio di regime richiederebbe truppe sul terreno, presenza stabile, e consenso internazionale. Ma mandare soldati occidentali in Iran equivarrebbe oggi a mandarli al massacro. Nessuna opinione pubblica lo accetterebbe. Nessun comandante lo consiglierebbe.

In questo contesto, la minaccia – ora divenuta decisione – del Parlamento iraniano di chiudere lo stretto di Hormuz, va letta per ciò che realmente è: un bluff pericoloso. Una mossa che danneggerebbe gli esportatori petroliferi del Golfo, ma che nel medio periodo potrebbe favorire la Turchia, trasformandola nella vera vincitrice strategica.

Con l’accesso ai grandi oleodotti che attraversano il suo territorio, Ankara diventerebbe crocevia obbligato per i flussi energetici verso l’Europa. Erdogan, maestro di opportunismo geopolitico, potrebbe aver suggerito tale strategia agli ayatollah stessi, offrendo l’alternativa perfetta al caos. Il risultato? L’Arabia Saudita triplicherebbe le esportazioni, l’Iran si isolerebbe economicamente, e Teheran scoprirebbe – tardi – che un passo falso può rafforzare i suoi nemici.

L’unica vera possibilità di rovesciare il regime degli Ayatollah non verrà da Washington, né da Gerusalemme. Verrà – se mai accadrà – da Teheran stessa. Dalla fame, dalla rabbia, dalla frustrazione di un popolo sempre più esasperato. La storia insegna che quando la miccia è interna, le rivoluzioni sono più definitive delle bombe. Basta ricordare Gheddafi linciato dal suo popolo, o Mussolini appeso a testa in giù.

Un popolo inferocito è una bomba con intelletto, passione e memoria. E l’ayatollah Khamenei farebbe bene a temere più i suoi giovani che i droni americani.

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